Presentazione
Dopo il lavoro, la guerra ora il tema è l’emigrazione. E’ partito a 20 anni in cerca di lavoro e di fortuna Beniamino. Ha lasciato il suo paese e la sua gente per andare a lavorare in fondo ad una miniera. Ora è vecchio e malinconico. Decide di ritornare nella sua terra, sicuro di ritrovare i luoghi della sua giovinezza, con i suoi colori i suoi profumi, la sua gente, ma tutto è cambiato e nessuno si ricorda più di lui. Dov’è finito quel mondo che aveva lasciato tanti anni prima?
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Lo hanno chiamato Beniamino.
Finalmente un maschio dopo tante femmine.
Beniamino vezzeggiato, viziato,
allevato con ogni attenzione
nella grande casa di campagna.
Beniamino il fortunato, Benia Calastoria.
Ma ecco la guerra.
Beniamino parte con i ragazzi del ‘99.
Al ritorno trova solo miseria.
Benia emigrante, Benia minatore in Belgio.
Benia dimenticato.
Benia vecchio e malato
che ritorna nella valle che stenta a riconoscere.
E finalmente esplode la sua rabbia.
Suoni alti come stelle,
Beniamino scuote il cielo.
La sua doveva essere una bellissima storia,
una Calastoria.
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​La storia di Beniamino, che ha lasciato la sua terra e al suo rientro non riconosce più i luoghi della sua vita, è uguale dei tanti profughi di tutte le guerre, costretti a lasciare le loro case per poi tornare e non trovare più niente di quello che gli era caro. È la storia di Matteo e della sua famiglia, raccontata da Mario Rigoni Stern ne “L’anno della vittoria”, che lasciarono la loro casa, in una contrada non lontano da Asiago, nel maggio 1916, quando gli Austriaci, impegnati nell’offensiva di Primavera, sferrarono il poderoso attacco sugli Altipiani battezzato dagli Italiani la Spedizione Punitiva. In pochi giorni Asiago venne rasa al suolo e gli abitanti, costretti a lasciare le loro case, vennero sfollati nei sottostanti paesi della pedemontana vicentina. Poi gli Austriaci vennero fermati e i profughi, dalla pianura, guardavano lassù ogni volta che il boato dei cannoni annunciava la ripresa della battaglia. Quando i militari scendevano a riposo dalla prima linea, Matteo e sua sorella Nina andavano alle cucine a chiedere gli avanzi del rancio e a raccogliere i fagotti di biancheria da portare a lavare alla loro madre. Ai soldati chiedevano sempre com’era lassù, se le case erano ancora in piedi. Poi un giorno Matteo decise di andare a vedere di persona. Risalì a piedi sull’Altopiano, per le scorciatoie che univano l’un l’altro i tornanti della strada. Il bosco era irriconoscibile, perché le bombe da 380 austriache che cercavano di colpire le batterie italiane avevano aperto grandi radure dove i tronchi schiantati e denudati biancheggiavano come ossa spezzate. Il terreno era sconvolto da strade, mulattiere, sbancamenti per far posto alle baracche e scavi per i ricoveri; talmente era cambiato il paesaggio che sul principio fece fatica persino ad orientarsi. Ma quando giunse sulle alture verso la sua casa rimase impietrito: niente più era rimasto di quanto aveva nel ricordo e che aveva conservato per tanti mesi nella nostalgia dell’anima: non erba, non prati, non case, né orti, né il campanile con la chiesa; nemmeno i boschi dietro la sua casa e il monte lassù in alto era tutto nudo giallo e bianco. I gas, le bombe di ogni calibro, le mitragliatrici in tre anni avevano distrutto anche le macerie, ed era questo che i suoi occhi vedevano e la ragione non voleva ammettere. Con le mani affondate nelle tasche vuote e la bocca socchiusa, Matteo cercava qualcosa di vivo: un segno, un soffio d’aria, un suono. Glielo portò un banchetto di cince di passo che dopo essersi posate su un frassino secco e scorticato erano volate via verso ovest richiamandosi frettolose.
"Tornà, son tornà, son tornà par sempre,
Tornà nella valle dove gera me popà.
Vardè, ma vardè, ma vardè la valle,
Vardè le montagne dove gera le contrà."